Il riscaldamento globale e le principali questioni del dibattito

Un chiarimento sui concetti e le problematiche necessario per affrontare in modo scientifico la questione dell’AGW, la teoria del riscaldamento globale antropico.

“Per poter essere considerata seriamente, ogni altra spiegazione scientifica deve dimostrare, con i dati, di avere una correlazione forte (con le temperature) almeno quanto quella della CO2”

 Richard Muller 2012.

… E questo non è ancora accaduto.

Ogniqualvolta si voglia cercare di impostare un dibattito serio nei confronti di un qualsiasi problema di natura scientifica è sempre buona regola prima di tutto riuscire a contestualizzare bene i discorsi e a definire chiaramente i contorni e i confini delle questioni che si intendono affrontare. 

Quando infatti si vuole interloquire, disquisire, ragionare sul piano scientifico, non si deve mai dimenticare che ci sono sempre delle regole da seguire, come minimo, a partire dall’utilizzo appropriato del lessico e della semantica, per arrivare poi alla logica, alla coerenza, alla formalità del pensiero, alla pertinenza, senza trascurare l’aspetto fondamentale legato allo stato generale di conoscenza-ignoranza nei confronti dei contenuti. Se una qualsiasi valutazione non risponde a questi requisiti, in genere serve a ben poco. 
Che poi il riscaldamento globale rappresenti allo stesso tempo anche una questione sociale, economica e politica, questo non va a modificare di molto l’etimologia del discorso…
D’altra parte, l’anacronistico e deleterio scadimento culturale scientifico che purtroppo caratterizza ancora la nostra società e la rende vulnerabile, induce molte persone a prendere coscienza e conoscenza di argomenti di natura scientifica quasi esclusivamente attraverso i media e internet, che sono sicuramente i mezzi più efficaci di comunicazione di massa, ma che allo stesso tempo rappresentano i sistemi decisamente più inclini alla deformazione e all’imprecisione.

Ecco quindi, che l’inevitabile diffusione di stereotipi e luoghi comuni, unita a una generale propensione a ipersemplificare concetti che in realtà sono molto vasti e complicati, genera il dilagare di un dibattito pubblico sui cambiamenti climatici vivace e rumoroso, spesso viziato da equivoci e fraintendimenti. Questo tipo di dibattito, infatti, oltre che a trarre origine generalmente da una insufficiente conoscenza dei fatti, è spesso animato anche da una sorta di schieramento ideologico che coinvolge la personale visione del mondo, dell’uomo e della natura, e che, chiaramente, produce quel fenomeno così diffuso nelle dinamiche sociali che si chiama “bias” o pregiudizio.

Questo tipo di approccio intellettuale, che è poi esattamente il contrario di quello che dovrebbe essere un atteggiamento scientifico, lo si può peraltro facilmente identificare nelle posizioni granitiche, imperturbabili e inamovibili, che caratterizzano il pensiero di molti. Per difendere le proprie convinzioni, si è disposti persino a negare l’evidenza dei fatti, o a crearsi dei meccanismi mentali per cui si tendono a considerare e a selezionare, spesso maldestramente, soltanto i fatti o i dati che possano in qualche modo avvalorare le proprie tesi, tralasciando magari tutta una moltitudine di altre informazioni che, se valutate obiettivamente e complessivamente, potrebbero invece confutarle facilmente. Un processo cognitivo ubiquitario ben conosciuto con il nome di “cherry picking”.

Ma torniamo ai cambiamenti climatici. Una delle meta-analisi e allo stesso tempo anche una delle interpretazioni senz’altro più convincenti dello stato dell’arte in materia, è fornita dall’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), organo dell’ONU nato nel 1988 proprio con lo scopo di studiare il riscaldamento globale e ampiamente criticato da alcuni per la sua presunta natura politicizzata. In realtà ciò che è riportato nei vari rapporti, che vengono redatti una volta ogni sei anni circa, corrisponde efficacemente e puntualmente a quanto si può trovare mediamente nella letteratura specialistica o nei siti dei più prestigiosi enti climatologici internazionali come il GISS-NASA, l’NCDC-NOAA e il Met Office, i quali costituiscono delle vere e proprie miniere di dati e informazioni. Dati e informazioni che quindi parlano chiaro anche da soli, senza bisogno di alcuna manipolazione politica.

Nell’ultimo rapporto dell’IPCC, il quinto, pubblicato nel 2013, per esempio, non c’è scritto da nessuna parte che l’attuale riscaldamento globale sia provocato interamente dalle attività umane, così come si sente spesso blaterare dalle sponde più o meno coscientemente scettiche.

I punti centrali del rapporto IPCC, infatti, sono principalmente due e recitano esattamente così: “Il riscaldamento globale attuale è inequivocabile e riguardo alle cause, è estremamente probabile che più della metà dell’aumento della temperatura superficiale media globale osservato nel periodo 1951-2010 sia stato causato dall’aumento delle concentrazioni dei gas serra antropogenici, insieme ad altri forzanti di origine antropica”.

Abbiamo quindi da una parte una chiara evidenza scientifica, il riscaldamento globale, di cui conosciamo esattamente nome e cognome e dall’altra il forte sospetto che una serie di cause in particolare (attività antropiche), tenda a prevalere quantitativamente sulle altre, che contrariamente a quanto si crede e senza alcun mistero, sono costantemente studiate e indagate. Nessuno mette in discussione per esempio l’importanza che hanno sul clima le fluttuazioni naturali del sistema accoppiato atmosfera-oceani e che sono descrivibili mediante i principali indici climatici o l’impatto a breve termine sulle temperature globali che hanno fenomeni come il Nino, la Nina o le eruzioni vulcaniche.

Molti però continuano ancora a dubitare (a volte giustamente) anche dei dati di temperatura, chiamando in causa eventuali errori grossolani derivanti dai fenomeni delle isole di calore urbane o riferendosi ad una rete di misurazione ancora troppo eterogenea.

E’ bene ricordare allora che oltre ai dati strumentali delle temperature, che non sono soltanto quelle superficiali, ma anche quelle satellitari troposferiche e le SST, esistono anche molti altri dati osservativi, perlopiù legati a fenomeni che fungono da indicatori climatici, come per esempio l’aumento del livello medio del mare, lo scioglimento dei ghiacciai montani e continentali della Groenlandia e dell’Antartide occidentale, la diminuzione della copertura nevosa, la significativa riduzione della calotta artica, i quali portano tutti alle stesse conclusioni: il riscaldamento globale esiste ed è ampiamente documentato.

Il clima però, è sempre cambiato anche in assenza della forzante antropogenica. Vero, ma il problema è che nonostante tutti quei bei grafici tematici che poi sono soltanto delle ricostruzioni a grandi linee e che potremmo definire utilizzando l’ossimoro “approssimativamente precisi”, nessuno in realtà ha la più pallida idea dell’esatta collocazione spazio-temporale di questi fenomeni, certamente avvenuti, ma che ancora i precari dati paleoclimatici e storici non riescono purtroppo a definire con precisione.

In altre parole nessuno sa se nel passato si sia mai verificato un aumento di temperatura globale di circa 0,7°-0,8°C in soli quarant’anni, come quello attuale, questo perché il grado di definizione dei dati paleoclimatici o storici, non è minimamente confrontabile con quello attuale. In ogni caso, anche se si conoscessero esattamente le cause di questi cambiamenti climatici avvenuti nel passato, ciò non escluderebbe comunque che il riscaldamento attuale possa percorrere effettivamente dinamiche diverse, atipiche o peculiari.
E poi ci sono le mitologie legate a storie di vichinghi e di terre da qualche parte verdi, come oggi del resto, di viticoltura presumibilmente condizionata dal clima anziché dalle vicende legate ai mercati e ai contesti storici, di qualche fiume ghiacciato immortalato in un dipinto a testimoniare piccole ere glaciali proiettate arbitrariamente su scala planetaria. Francamente non si riesce a capire bene come si possa soltanto pensare di mettere sullo stesso piano logico-concettuale i risultati di decine d’anni di ricerca climatologica moderna con labili e soggettivi contesti di questo tipo.

Maggiore attenzione merita sicuramente l’ipotesi alternativa secondo cui la principale causa dell’attuale riscaldamento globale possa essere imputabile alla variabilità solare, se non altro per il fatto che il Sole costituisce effettivamente il motore del clima e della vita su questo pianeta.

Il problema fondamentale però è che dai dati ufficiali di cui disponiamo pare non ci sia nessuna correlazione evidente tra la variazione dell’attività solare e le temperature globali, anzi, a fronte di una leggera diminuzione dell’attività solare in corso già da alcuni decenni e precisamente dal picco del ciclo 19 raggiunto intorno all’anno 1960, tutti sappiamo invece come sono variate nel frattempo le temperature. Anche l’evidente, contemporaneo raffreddamento della bassa stratosfera poco si addice all’ipotesi solare. In realtà, considerando una meta-analisi dei lavori scientifici, emerge chiaramente come la variabilità solare possa avere certamente un effetto, soprattutto a livello regionale, ma come questo, nella prospettiva del riscaldamento attuale, appaia abbastanza modesto e comunque non determinante se paragonato ad altre forzanti quali ad esempio l’incremento della concentrazione dei gas serra in atmosfera o la variabilità naturale interna al sistema Terra.

Sempre legata all’attività, questa volta geomagnetica del Sole, che è in grado di modificare ciclicamente la disposizione del campo magnetico terrestre, c’è anche la discussa e controversa teoria dei raggi cosmici, secondo la quale le particelle cariche elettricamente di cui sono formati avrebbero la capacità di contribuire a modulare i processi atmosferici di nucleazione e quindi la formazione delle nubi, intervenendo così sul bilancio radiativo terrestre. Al momento però, anche questa teoria non sembra essere sorretta da basi scientifiche solide, tanto che anche i primi dati in arrivo dal CERN di Ginevra dove è in corso l’esperimento CLOUD (Cosmic Leaving Outdoor Droplets) non hanno ancora fornito in merito risultati concreti e definitivi.

Ma parlando di conferme sperimentali viene anche in mente il problema legato all’accuratezza dei modelli climatici standard che qualcuno definisce “dell’IPCC”, anche se è bene precisare che l’IPCC non fa ricerca, ma si limita soltanto a riassumere quello che già esiste in letteratura. Secondo una certa tipologia di critica, i modelli climatici attuali non sarebbero riusciti a cogliere per esempio il rallentamento della crescita delle temperature osservato per una dozzina d’anni tra il 2002 e il 2013 e questo costituirebbe dunque la prova che tutta la scienza del clima, principalmente basata sui modelli fisico-matematici, non sarebbe affidabile. Non a caso però, qualche tempo fa, parlando di sistemi complessi (il clima è un sistema complesso), sottolineavamo alcuni punti sostanziali, in particolar modo in riferimento all’impossibilità della previsione in dettaglio e alla necessità di un approccio plurimodellistico per tentare di cogliere almeno alcuni degli aspetti legati alla complessità di un sistema.

Certamente quindi se da questi modelli ci si aspetta, erroneamente, una precisione infallibile sul dettaglio anziché sulla sostanza, per esempio pretendendo una previsione accurata della variazione di temperatura all’interno di un decennio, allora sì, si può dire che in questo caso i risultati non sono stati soddisfacenti. 
Ma non è questa la finalità di questo tipo di modelli, non è loro compito cogliere l’impredicibile variabilità interannuale o di microperiodo del sistema. E se certamente i limiti esistono e sono evidenti, c’è anche da dire che negli ultimi anni, sono stati fatti passi da gigante sia in termini di conoscenza di base, che di disponibilità di dati significativi e grado di completezza dei modelli stessi. 
Oltre a quelli dinamici standard (Global Climate Models-GCM), infatti, sono stati recentemente sviluppati anche nuovi modelli a reti neurali e introdotte altre metodologie di analisi da utilizzarsi per le prove di “attribution” come per esempio un interessante approccio, importato dall’econometria, che si chiama metodo di causalità di Granger (modelli data-driven). Al momento, lo studio dell’evoluzione del sistema clima, condotto utilizzando diversi sistemi di approccio e diverse metodologie scientifiche di indagine, sta sostanzialmente producendo scenari molto simili tra di loro e che tendono ad attribuire alle forzanti antropogeniche ancora un peso importante e significativo rispetto agli altri fattori, sia in termini di probabilità di un futuro aumento delle temperature medie globali sul lungo periodo, sia come causa principale del riscaldamento globale attuale.
In conclusione quindi, certamente la pluralità dei risultati che emergono dalle proiezioni modellistiche malcela in realtà una evidente debolezza conoscitiva e analitica che indubbiamente ancora sussiste nella comprensione del sistema climatico nel suo complesso, tuttavia questo non dovrebbe comunque costituire ragione per sottovalutare aprioristicamente i ripetuti segnali di allarme che provengono continuamente dalla ricerca climatologica internazionale, anche perché, coerentemente, i dati più recenti, in fondo, sembrano ancora confermare piuttosto che smentire.

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