La più bella storia d’amore mai raccontata

Buddhismo e rapporti di coppia

La storia d’amore più bella del mondo
La storia d’amore tra Buddha, sua moglie e il figlio Rahula, è forse la più bella storia d’amore mai raccontata. Perché è la storia d’amore tra un uomo e una donna che trascende i confini del tempo e dello spazio.

E’ la storia d’amore di tutte le coppie del mondo, in realtà con la differenza che la maggior parte delle coppie vive questa storia in modo inconsapevole, mentre alcune coppie (poche) lo vivono in modo consapevole.
E’ una storia d’amore che contiene molti messaggi, e molte direttive per vivere una vita di coppia soddisfacente. E indica alla coppia la strada da perseguire per essere felici.

Un giorno Siddharta Gautama, principe degli Shakya, capisce che la sua vita manca di qualcosa. Ha una splendida moglie e un figlio. E’ ricco, ammirato e invidiato. Ma gli manca qualcosa. Sente che deve trovare il significato dell’esistenza e che una vita condotta senza scopi non merita di essere vissuta. E vuole cercare il segreto della felicità, ovverosia una formula, per rendere felice l’essere umano a prescindere dalle circostanze esterne.

Prende quindi una decisione che per la maggior parte della gente sarebbe folle: se ne va di casa…

Se ne va di notte, perché non reggerebbe al dolore della famiglia, e perché forse ha paura di essere trattenuto dal figlio.
– Aspettami -, disse silenziosamente Siddharta baciando la moglie che dormiva. – Un giorno tornerò.

La storia della figura spirituale più importante dell’umanità ai fini della diffusione del messaggio di amore e compassione, quindi, è anche la storia di una persona che ha abbandonato la famiglia, lasciando la moglie a gestire un figlio piccolo da sola.

Siddharta vagò per anni alla ricerca dell’illuminazione, cioè del significato dell’esistenza, e di un metodo per poter insegnare alla gente ad essere felice. Una volta raggiunto questo stadio, che gli richiese anni di sofferenze, di prove, di scuole, un giorno Siddharta, che ormai era chiamato “il Buddha”, il risvegliato, fu pronto a tornare.
Arrivò al palazzo di famiglia, il palazzo degli Shakya, e si presentò. Erano passati sette anni dal giorno della sua scomparsa.
Quando Yashodara lo vide lo riconobbe subito. Lo aveva aspettato tanto. Sempre, negli anni che lui era via, si domandava dove fosse e come stesse; non imprecò mai, né lo maledisse. Ogni tanto qualcuno gli portava delle informazioni. “L’abbiamo incontrato. Dicono che sia impazzito”. “E’ un pazzo. Vive di elemosina quando potrebbe vivere da re”. “Ma come si fa a asciare il figlio così? Dissento da questo comportamento… il bambino nei primi anni di vita ha bisogno della vicinanza emotiva del genitore”.
Ma lei non aveva mai ascoltato le voci. Semplicemente, pensando a lui con malinconia, gli diceva silenziosamente: “Onoro il tuo viaggio, ovunque ti porti… e che il tuo viaggio ti faccia arrivare alla meta che cerchi”. A volte soffriva un po’. Gli domandavano come facesse a sopportare questa lontananza, e lei rispondeva: “Anche le coppie unite hanno sofferenze; si tratta solo di quale sofferenza preferisci gestire; se quella della vicinanza, o quella dovuta all’amore per la libertà dell’altro che ti spinge a lasciarlo andare”.

Ora se lo trovava davanti e vide che emanava una luce diversa, avvolgente, che trasmetteva nell’ambiente intorno un alone di serenità e forza senza precedenti. Era Siddharta Gautama, sì, suo marito. Ma era anche un’altra persona. Era come se fosse tornato diverso.
Yashodara non pianse come ci si aspetterebbe. Rimase immobile a guardarlo, affascinata ma anche un po’ impaurita. Impaurita dalle conseguenze di quel ritorno. Perché, lo capì subito, Siddharta era tornato per sempre, ma non sarebbe stato facile ritrovarlo, sentirlo e amarlo come un tempo. Era come se fosse un uomo diverso.

Yashodara aveva sognato mille volte il suo ritorno. Aveva sognato che avrebbero fatto l’amore per ore, che si sarebbero abbracciati, parlati, spiegati, ritrovati. Ma ora che se lo trovava davanti nulla di tutto questo succedeva. Era come se l’aura che circondava il Buddha fosse così intensa, così bella, così forte, che solo stargli vicino era come un orgasmo. Non aveva bisogno di farci l’amore. E capiva tutto Yashodara, solo rimanendo in silenzio a guardarlo.

Il primo a parlare dei due non fu Yashodara come ci si aspetterebbe, ma Buddha. Disse: “Sei stata coraggiosa e forte. E mi hai amato molto. Scusa se non sono riuscito a trasmettere il mio amore durante il mio viaggio. Ho sentito però il tuo amore”.

Il primo giorno quindi non parlarono molto. Yashodara lo portò dal figlio. E il Buddha parlò prevalentemente con lui. Gli raccontò dove era stato, quali posti aveva visto, e cosa aveva fatto. Il bambino lo ascoltava, contento. Non capiva tutto. Ma ascoltava. E capiva che non era vero che il padre lo aveva abbandonato, ma anzi… si sentì un privilegiato, perché sentiva che suo padre era bello, grande, aveva in sé qualcosa che non aveva visto da nessun’altra parte. Forse, si disse, tutti i figli vedono così i propri padri.
Nei giorni successivi Yashodara e Buddha parlavano raramente e si capivano in silenzio. Lei ogni tanto faceva qualche domanda. Lui rispondeva. Lei capì che suo marito aveva fatto un lungo viaggio, ma il più importante era stato quello alla ricerca di se stesso.
– Hai trovato un maestro, Siddharta?
– No, Yashodara. Ne ho trovati tanti, qualcuno mi ha insegnato qualcosa, ma alla fine le risposte più importanti ho dovuto trovarle io da solo.
– Qual è la risposta più importante?
– Che non c’è nessuna risposta. Lo capirai col tempo.
– Sei felice più qui o fuori, nel tuo Sangha? Posso chiedertelo? Non lo capisco…
– Sono felice ovunque, Yashodara. La felicità è una condizione interiore, non dipende dall’esterno.

Sentì che quello che era tornato non era il marito di una volta che aveva conosciuto. Ma decise di seguirlo lo stesso, perché capì che Siddharta le stava proponendo a sua volta un viaggio, ed era il viaggio più affascinante della sua vita.
– Sei sicura di volerlo fare, Yashodara? E’ un viaggio duro. Si soccombe spesso. Mille volte penserai di non farcela, ma è anche un viaggio che una volta iniziato non permette di tornare indietro e talvolta si rischia la pazzia, come ho rischiato io.
– Proviamo, Siddharta. Io poi ho te che mi impedirai di impazzire.
– E Rahula? Cosa faremo con lui? Ha sentito per anni la mia mancanza. Forse ora sentirà la tua…
– Proverò a spiegargli. E proverò a non fargli sentire la mia mancanza fisica. Non rifarò quelli che a prima vista potrebbero sembrare degli errori da parte tua. Gli farò sentire la mia presenza. Concilierò la mia ricerca interiore con la mia presenza. E poi mi guiderai tu a rimanere centrata, e a non sbilanciarmi troppo in un senso o in un altro. Ora mi puoi fare da maestro oltre che da marito, non credi?

Iniziò quindi un viaggio a tre, quello di Yashodara, Rahula e il Buddha. Il loro fine questa volta era identico. Aiutare gli altri ad essere felici ma, prima di ogni altra cosa, trasformare se stessi, e diventare felici loro.

– Sento che ti amo tanto – diceva Yashodara a Buddha -, anche più di prima. Ma amo anche tante altre persone. Come è possibile?
Perché l’amore non è una quantità che puoi dare solo a qualcuno. E’ una qualità dell’essere, che emana un’energia. E questa qualità o ce l’hai o non ce l’hai. Più ami te stesso, più ami l’altro, e più ami tutti gli altri. L’amore per una sola persona è un’illusione.
– Ma come si sviluppa l’amore?
– Sentendo. Sentendo prima se stessi, e imparando a sentirsi. Poi sentendo l’altro. L’amore in fondo è un sentire l’altro. Se lo senti davvero, lo ami. Chi ama gli animali li sente. Il cane ama il padrone perché lo sente. Chi ama le piante, le sente, ci parla, si trasforma insieme ad esse. Chi sente tutti gli altri li ama. Mi stai amando sempre di più, ma amandomi ami sempre di più anche gli altri, perché, insieme a me, senti anche tutti quelli che sento io. Chi sente l’universo ama l’universo e da esso si sente amato.
– E come si sviluppa il sentire?
– Con la meditazione. Seguimi in questo, e ti porterò a sentire l’amore più elevato che tu abbia mai sperimentato.

Rahula entrò nella comunità di monaci del padre, ed era molto invidiato per questo suo privilegio di essere il figlio del Buddha. Nessuno sapeva quanto aveva sofferto, e nessuno capiva che la sua sofferenza era tornata di nuovo col ritorno del padre, perché il padre era tornato, sì, ma iniziava ora il lavoro più difficile, quello di trovare se stesso.

Si narra che un giorno Buddha disse al figlio, sedendosi accanto a lui in meditazione: “Rahula, come procede?”. E lui rispose: “Bene, padre. Mi pare bene. Ma il lavoro su se stessi è più difficile del lavoro che ho fatto per cercare di superare il dolore per la tua assenza”.

Negli anni il Sangha, la cosiddetta comunità di monaci, si espandeva sempre più, ma era solo una comunità maschile.
Yashodara un giorno si presentò al Buddha e lo pregò di creare un ordine monastico anche per le donne.

Trattandosi della moglie, Buddha non poteva sottovalutare la richiesta. Ma lui sapeva che la società in cui viveva era una società maschilista, e che la creazione del monachesimo femminile avrebbe indebolito il Sangha, anche se, nel lungo periodo e nel corso dei millenni, tale scelta si sarebbe rivelata uno strumento di forza e non di debolezza. Ma, nell’immediato, il Sangha sarebbe stato indebolito.
Buddha rimase tormentato giorni a meditare su cosa fare. Accogliere la richiesta di Yashodara, e indebolire il Sangha che tanto amava? O continuare così?
Poi si accorse che non poteva – proprio lui, che tanto predicava contro gli attaccamenti – essere attaccato al Sangha. E si accorse che ogni uomo, anche il Buddha stesso, per quanto illuminato, ha sempre un residuo di ego e di attaccamenti. Altrimenti non sarebbe un uomo. E forse si riunirebbe alla Fonte.
E si disse che un giorno Yashodara aveva rinunciato a lui, accogliendolo al suo ritorno incondizionatamente; ora era tempo per lui di fare qualcosa per amore della moglie, e per amore non di se stesso, ma del Sangha stesso, perché nelle sue visioni del futuro il Buddha vedeva chiaramente che nei millenni a seguire le donne sarebbero stato un elemento di rafforzamento per la diffusione del messaggio buddhista e non di indebolimento.
Accettò quindi la richiesta di Yashodara, che fondò la prima comunità di monache donne.

I messaggi che possono essere tratti 

dalla storia di Buddha sono tanti. 


Il messaggio più importante è che l’amore è un dono di libertà fatto all’altro. E’ una promessa. “Ti amo, quindi voglio aiutarti a sviluppare te stesso e conoscere te stesso”.

Il dono più grande che si può fare alla persona che si ama, quindi, è la libertà, anche quando questa confligge con quella propria, anche quando l’altro deve allontanarsi.
Talvolta l’amore per l’altro va in contrasto con l’amore se stessi. Allora scoppia un conflitto, che in genere viene risolto facendo prevalere l’amore per se stessi. Ma talvolta l’amore per l’altro può essere così grande da mettere in secondo piano l’amore per se stessi. Questo accade in particolare quando si riconosce nell’altro qualcosa di grande, per cui vale la pena di lottare anche contro se stessi.
Oriana Fallaci amava Alekos Panagulis; lo amava anche quando lui scappava, e lo lasciava sempre andare, per amarlo anche quando lui fuggiva, anche quando non lo capiva. E il suo amore è stato trasfuso nel capolavoro “Un uomo” che narra in realtà la storia di un amore, non di un uomo. Non a caso Alekos Panagulis lottava per la libertà; quindi è la storia anche dell’amore di Oriana e di Alekos per la libertà non solo del popolo greco, ma anche per la libertà dell’altro nella coppia.

Nel film “Elisabetta la regina vergine”, Walsingham, il capo del servizio di sicurezza della regina, ama talmente la regina che la protegge e la difende a qualsiasi costo, anche quando le condizioni che gli propongono altri sono più favorevoli. E quando la regina gli dice: “Grazie Walsingham per quello che fai per me”, lui dirà: “Maestà, curandomi di voi mi curo anche di tutto il vostro regno”. Come dire: non lo faccio solo per te, lo faccio per qualcosa di più grande in cui credo e che fa parte di me. Come dire: lo faccio per me stesso, perché io sono lo specchio del paese e il paese è lo specchio del tutto.

Tiziano Terzani è uno dei giornalisti più bravi dell’ultimo secolo. Alcuni suoi libri sono una poesia, un vero e proprio canto di libertà; un resoconto della sua ricerca della verità che si conclude con l’ultimo stupendo libro “La fine è il mio inizio”, in cui Terzani racconta la storia del suo viaggio interiore, concludendo, proprio alla fine della sua vita, che il viaggio più importante è quello interiore. Ma Tiziano Terzani è stato quello che è stato, e ha potuto donare al mondo i suoi libri, grazie all’amore della moglie, che lo ha lasciato andare ogni volta che lui andava via anche mesi, e che lo ha sempre sostenuto, facendogli il dono più grande che potesse fargli: la libertà.

Il fine di una coppia, di qualsiasi coppia, è quello di elevarsi spiritualmente. 

Anche le coppie inconsapevoli di questo, in realtà stanno insieme per fare il cammino della vita, che è, per tutti, inevitabilmente diretto alla stessa meta di chiunque altro.

Non per niente finché si ha un fine comune si cammina insieme. Quando le coppie perdono i propri fini si lascia l’altro perché non lo si riconosce più; in pratica non si riflette nell’altro, il fine che si perseguiva consciamente o inconsciamente.

Ho sposato un campione di motocicletta solo per il suo essere campione e non per la sua persona? Se quel campione cade in rovina sono costretto a lasciarlo.
Ho sposato una persona per soldi? Se diventa povero lo lascio.
Ho sposato una persona felice perché avevo bisogno della sua felicità? Se cade in depressione la lascio.
Ho sposato un avvocato? Se diventa barista lo lascio.
E così via.
Solo se si ha un fine chiaro, condiviso, e grande, l’amore resiste oltre la morte.
Basta pensare all’amore dei discepoli per il maestro, come esempio di amore che trascende la morte.

Nella storia di Buddha è poi implicito un altro messaggio. La propria strada ciascuno deve trovarla da solo. 

Non è detto che un figlio abbandonato sia più o meno sfortunato di un figlio che ha una famiglia (magari disastrata, violenta, disfunzionale).

Anche perché il figlio abbandonato può un giorno trovare una figura paterna sostitutiva, magari più grande e forte di quella paterna, come canta la canzone “Io sono Francesco” di Tricarico.
Oppure, più semplicemente, il figlio abbandonato e traumatizzato da questo abbandono, ritrovando il genitore ormai più adulto e illuminato, potrà migliorarsi e superare le sue ferite proprio grazie alla forza trascinante dell’amore che prova per il genitore; perché a quel punto la forza dell’insegnamento del genitore sarà così grande, penetrante, e travolgente, da trasformare completamente il figlio trasmutandone le ferite, come successe a Rahula.

Inoltre, non si ama mai davvero l’altro. Perché l’altro non lo si conosce mai davvero a fondo. Noi possiamo amare dell’altro solo il riflesso di noi stessi, per esplorare noi stessi. L’altro è uno specchio, o un ponte se vogliamo, per riflettere noi stessi o per essere trasportati su un’altra dimensione (come fa Yashodara quando segue il Buddha nei suoi insegnamenti).

Se riconoscessimo che l’altro non è una persona con dei difetti, ma è lo specchio di noi stessi, smetteremmo di pensare all’altro in termini negativi e potremmo utilizzare l’altro come un ponte per essere traghettati a un’altra dimensione. 
Ad esempio una persona molto razionale ed estroversa potrebbe imparare molto dal partner introverso e intuitivo, imparando a scendere dentro se stesso, a stare in silenzio, e a meditare. E viceversa. Un partner collerico potrebbe imparare la calma dall’altro, mentre il partner calmo potrebbe imparare dall’altro ad arrabbiarsi di più quando serve. E così via.
L’amore è un dono di libertà all’altro, sì, ma può anche essere trasformato in un dono di libertà per se stessi, e di miglioramento, se solo riconoscessimo nell’altro noi stessi.
Yashodara, in fondo, non riconosce più il marito nell’immediato; egli non è più il marito che conosceva, ma un altro. Ma decide di seguire anche questo “altro” nel suo cambiamento, utilizzandolo come ponte per accedere a un’altra dimensione.

Tutti noi, anche quando cerchiamo di legare il nostro partner, credendo in tal modo di sentirci più sicuri, in realtà lo perdiamo spesso perché ciascuno si allontana sempre, inevitabilmente, per i suoi viaggi. La maggior parte della gente, per esempio, ha paura quando il partner si allontana per troppo tempo da solo, come faceva Terzani, o quando l’altro sperimenta una nuova relazione o tradisce. Ma ci si dimentica che l’altro non è mai realmente sempre con noi e spesso parte per diversi viaggi; che sia il viaggio in un videogioco, che sia il lavoro, che sia semplicemente la lettura di un libro, o la telefonata di amico, spesso le energie del partner non sono dirette a noi ed è un illusione quello di averlo per sempre, un’illusione della propria mente.

Come è un illusione quello di perderlo, perché, fin dall’inizio, noi non possediamo mai nessuno, e l’unica cosa che possiamo cercare di possedere è il controllo di noi stessi. Anche quando l’altro parte per un viaggio, quale che esso sia. E solo se l’altro lo si lascia libero di partire, tornerà prima o poi.
Talvolta, al contrario, legando l’altro, si rischia di perderlo per sempre.
Mentre invece, lasciandolo andare, ci si può ritrovare a fare il viaggio più importante della nostra vita, quello con noi stessi.

La storia di Buddha però è anche la metafora della difficoltà di qualunque viaggio si affronti. 

Rimanere nella vita ordinaria non è facile (tant’è vero che Buddha scappò dal palazzo). Cercare l’illuminazione può condurre a pazzia, e si affrontano mille sofferenze. E né il Buddha, né la moglie, né qualsiasi persona, possono sfuggire alle sofferenze.
L’unica cosa che possiamo fare è trasmutarle.

E una volta trasmutate queste sofferenze in amore per se stessi e felicità personale, il proprio amore diventa così grande da trascendere il tempo e lo spazio, rinnovandosi di vita in vita, migliorandosi, ed espandendosi a tutto il mondo, come fu l’amore tra Buddha e Yashodara, talmente grande da diffondersi a milioni di persone per secoli.

“Siate certi dei vostri sentimenti 
quando dite a qualcuno: “Ti amo”. 
Se date il vostro amore, deve essere per sempre, non perché desiderate rimanere accanto a quella persona, 
ma perché volete la perfezione 
per la sua anima.” 
Paramahansa Yogananda

from La Crepa nel muro ift.tt/2fmeOZf

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